martedì 3 aprile 2012

14. Die Deutschkurse

Io, dotata dell’autostima di un criceto e facile preda dell’ansia da prestazione, m'iscrissi a due scuole di lingua contemporaneamente: una si trovava tra le villette ed i giardini fioriti, l'altra nella parte turco-proletaria della città.

Per due mesi e mezzo seguii entrambi i corsi ed anche le lezioni all'università. Il tutto grazie ad un orario ad incastro che mi sballottava da una parte all’altra di Berlino, costringendomi a ipercalorici pranzi al volo. Divoravo hamburger grondanti maionese, cipolla e colesterolo. Ingurgitavo mastodontici panini teutonici, imbottiti con gli onnipresenti cetrioli. Cadevo in estasi mangiando l’oleosa pizza salami a Zoologischer Garten. Per fortuna all’epoca ero giovane, con uno stomaco di ferro ed un metabolismo rapidissimo. Se mangiassi così adesso, probabilmente, non vivrei abbastanza a lungo da raccontarlo.

Il primo corso di tedesco consisteva in due lezioni mattutine a settimana. Sei ore in tutto. Sei ore tenute in un bel palazzo da insegnanti totalmente incompetenti. Il programma procedeva con una lentezza esasperante ed io, con il passare del tempo, lo seguii sempre più saltuariamente ma non lo abbandonai mai del tutto, sia perché l’avevo già pagato e neanche poco, sia perché l'umanità che popolava la mia classe era incredibilmente varia ed interessante.
Andare a questi corsi è un po' come andare allo zoo, e visto che ai giardini zoologici io non ci vado per principio, la mia classe di tedesco era il perfetto compromesso tra etica, morbosa curiosità, ed antropologia urbana.

Tra i tanti compagni c'era l’italiano iscritto a veterinaria, a sentir lui avrebbe avuto bisogno solo di un ripasso delle regole di base per migliorare un tedesco già eccellente. Peccato che necessitasse di un tutor anche solo per prendere un caffè alla macchinetta.
"Cosa significa mit Zucker?"
"Con zucchero"
"E ohne Zucker?"
"Senza zucchero"

C’era l’au pair franco-canadese. Dolce, carino ed educato, ma talmente molesto con l’insegnante da riuscire spesso a portarla sull’orlo di una crisi di nervi.
"Ma davvero in tedesco si dice così? Che strano. In francese diciamo diversamente. Ma davvero in tedesco quella cosa è femminile? Ch strano. In francese è maschile. Ma davvero... "
"Taci! Non ce ne frega niente del francese. Questo è un corso di tedesco: t-e-d-e-s-c-o!"

C’era la casalinga statunitense, trascinata dall'altra parte del mondo dal lavoro del marito. Lei soffriva per la nostalgia del proprio paese, della propria famiglia e soprattutto della propria lingua, e soffocava la tristezza cucinando deliziosi muffin per tutti quanti. La sua abilità culinaria aumentò esponenzialmente ad ogni nuova infornata, mentre la sua conoscenza del tedesco non si schiodò mai dalle basi elementari che, nello specifico, consistevano nei giorni della settimana ed i numeri fino al 20.

Ed infine c’era il misterioso pittore cinese, che si espresse a gesti per la durata di tutto il corso e ci mise due mesi per imparare a dire: "Wo ist die Toilette?" Non voglio neanche pensare alle dimensione raggiunte dalla sua vescica nel frattempo.

Durante quelle ore imparai poco o niente, ma mi divertii tantissimo in mezzo a quella colorata gabbia di matti.

Il secondo corso, molto più intenso ed infinitamente più utile, consisteva in 12 ore settimanali, tenute in una scuola elementare sotto la guida di un'insegnante fantastica, che avrebbe potuto far parlare fluentemente tedesco anche ad un chihuahua balbuziente.
Nella classe vi erano musicisti, giunti da varie parti del mondo per migliorare la propria formazione, ed un folto gruppo di donne turche, che avevano lasciato il proprio paese ed il proprio lavoro per seguire i mariti in terra germanica.

C’era il bassista francese, molesto quanto il ragazzo canadese e con l'aggravante di essere meno simpatico e piacevole di un attacco di colite.

C’era la chitarrista ucraina, che aveva a cuore solo tre cose: suonare, sposare il grande amore che l’attendeva in patria, e trovarmi un fidanzato.
"Ma davvero non hai un ragazzo?"
"No"
"E come mai?"
"Perché no"
"Eppure non sei brutta"
"Grazie, ma il ragazzo nen ce l'ho lo stesso"
"Non ti piaceranno mica le donne?"
"No"
"Guarda che per me non è un problema"
"Neanche per me, ma per ora preferisco gli uomini"
"Se vuoi te lo trovo io un fidanzato"
"No, grazie"
"Ho tanti amici. E tante amiche. Se preferisci"
"No, grazie, faccio da sola. Se poi cambio idea ti chiamo, ok?"

E poi c’era Aida, sempre con addosso il velo ed un vestito nero lungo fino ai piedi. Di primo acchito ricordava le arcaiche donne di paese che si vedono nelle foto in bianco e nero dei nonni. Ma appena apriva bocca si rivelava essere una mente arguta e moderna.
Aida fu per me la porta che si aprì verso una cultura sconosciuta, il riflettore che illuminò senza pietà la schiavitù dei pregiudizi e delle fallaci prime impressioni. Schiavitù inevitabile nonostante gli anni di educazione aperta e politicamente corretta. Schiavitù da cui ci si libera solo dopo averne preso doloramente coscienza.

Durante quei mesi intensi venni a contatto con culture diverse, conobbi persone straordinarie, compresi a fondo il significato della parola “privilegiata” e, con mio sommo stupore, iniziai anche a parlare tedesco.

Quando i corsi finirono potei dedicare tutte le mie energie alle ore di lezione all’università e, soprattutto, ai gruppi di studio pomeridiani che mi erano stati appositamente posticipati. Destino volle che m'imbattessi nuovamente nell’altra italiana con le lacune linguistiche. Ella, la simpaticona poliglotta con l'ego ipertrofico, nel frattempo non aveva fatto grandi passi avanti con il tedesco, tutt'altro.
Me la ritrovai dunque attaccata come una cozza allo scoglio, una cozza spaventata che non capiva nulla di ciò che le dicevano gli altri, e che necessitava di una continua traduzione simultanea da parte mia.

Ovviamente, a quel punto, l'ego smisurato venne a me. Ecchecavolo.

Continua...

6 commenti:

  1. Mi pare d'aver capito che era prerogativa dei francesi rompere le scatole su quanto fosse meglio la loro lingua!
    Io ti invidio, ho studiato tedesco 5 anni alle superiori, cambiando 15 insegnanti, quindi non o imparato una cippa, a parte qualche parola sparsa, tipo "kranckenschwester" (che uso anche come imprecazione, "Wie gehts?" e "Zwei eis mit Schinken", però non sono sicurissima di averle scritte giuste! Io trovo che in Italia le lingue straniere si studino da cani, o forse sono stata sfortunata io con gli insegnanti!

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    1. Credo che per imparare davvero a parlare una lingua bisognerebbe fare dei corsi intensivi, guardare film e leggere libri in lingua originale e, ovviamente, fare frequenti viaggi. La scuola è importante per la grammatica di base e la letteratura ma per imparare a parlare fluentemente una lingua straniera c'è bisogno di esercizio e passione.

      Io non mi posso lamentare per le mie insegnanti delle superiori. Mentre non posso dire lo stesso per quelle delle medie, che l'inglese non lo sapevano insegnare e non lo sapevano neanche parlare O_o

      Comunque, il vero scandalo secondo me sta in moltissime facoltà in Italia. Non posso parlare per tutte, ma so di certo che in molte facoltà di lingue straniere nel nostro paese si fanno le lezioni in italiano. Un'assurdità!

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  2. Confermo, lo studio delle lingue straniere in Italia è una presa per i fondelli...

    Non ho iniziato ad imparare veramente l'Inglese (beh non si finisce mai...) finché non ho iniziato a lavorare per una ditta yankee, a fianco di colleghi anglofoni ed a viaggiare e vivere in paesi anglofoni.

    Ai fini di leggere un testo e capirne più o meno il significato possono bastare anche le lezioni scolastiche ma per parlare una lingua e fare della conversazione occorre la pratica.

    ---Alex

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  3. Anche questo post è un piccolo gioiello: bravissima. E detto da me, perfezionista rompicoglioni e incontentabile...

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    1. La statua di ringraziamento che intendo costruirti la preferisci in bronzo o in marmo?

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    2. Guarda, dato che non ho mai avuto una statua di ringraziamento, va benissimo anche di cartapesta. Grazie! ;-)

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