sabato 26 maggio 2012

25. Fussball


Forse non ci avete mai fatto caso ma ogni tanto capita che, in occasione delle partite di calcio della nazionale o delle squadre di club italiane all’estero, il telecronista sottolinei la presenza di Erasmus sugli spalti. Ciò si verifica soprattutto nei paesi più lontani ed isolati del continente, dove sono pochissimi i tifosi disposti ad affrontare la trasferta. Gli Erasmus fanno colore e permettono al giornalista di turno di distrarre l’attenzione dagli spalti tristemente vuoti.

E secondo voi, io potevo perdermi un’esperienza così?
Onestamente non ricordo quale fosse il motivo che mi spinse ad andare a prendere freddo all’Olympiastadion di Berlino. E, soprattutto, quale fosse il motivo che spinse un’orgogliosa gobba come me a congelarsi il sederino sui seggiolini di plastica per vedere l’Inter.
Vi è un’unica spiegazione valida: io ero Erasmus nell’animo. E, se sei un Erasmus, parti dal presupposto che ogni lasciata sia persa, ed ogni scusa sia buona per fare un’esperienza da raccontare al ritorno in patria.
Scaltra messa in scena in ambasciata? Ce l’avevo.
Litigio con iraniano? Ce l’avevo.
Partita di calcio in stadio tedesco? Mi mancava. Dovevo rimediare.

Che poi, in effetti, andare a vedere una partita di calcio in Germania ha un suo senso, un suo significato. Se esiste un paese europeo dove la passione per il pallone è persino più virale che in Italia, questo è proprio la Germania. Un paese con la più alta concentrazione di scuole calcio. Un paese dove l’amore per questo sport raggiunge gli stessi livelli d’imbarbarimento e rimbecillimento che raggiunge da noi.
Non ci credete? Vi faccio un esempio su tutti: il mio Buddy, Felix!
Arieccolo. Sempre lui. Bello bello in una maniera assurda.
Felix, tra le altre cose, aveva una passione malata per il calcio.
A lezione, ogni lunedì, me lo vedevo venire incontro tutto sorrisi ed io mi cullavo nell’illusione: “Ecco, lo sapevo, ha finalmente capito di essere follemente innamorato di me!”
E invece no.
Lui, ogni maledetto lunedì, mi metteva sotto il naso il quotidiano con i risultati di tutti i campionati europei, ritenendo suo dovere di Buddy aggiornarmi circa l’andamento della nostra serie A.
Sordo al mio disinteresse, alle mie battute sarcastiche, ai miei velati insulti, Felix si ostinò a portarmi ogni settimana il giornale zompettando e scodinzolando orgoglioso. Come il più fedele ed esuberante dei cocker. Forse, a pensarci adesso, avrei dovuto ringraziarlo grattandogli il capino od offrendogli dei croccantini. Chissà che il mio destino non sarebbe stato diverso ed il nostro rapporto non sarebbe finalmente sbocciato in tutte le sue gloriose potenzialità.
Ma non vi ho ancora detto tutto, il bel Felix se ne andava in giro con la foto di Voeller, all’epoca allenatore della nazionale germanica, appiccicata sul retro del cellulare. Ebbene sì, io ero folle d’amore per un tizio col santino di Voeller attaccato sul telefono.
Non guardatemi così. Del resto, chi meglio di me potrebbe apprezzare la pazzia e le stranezze altrui? Chi?

Ma torniamo finalmente al giorno del ritorno in Italia dei miei genitori. Dopo averli lasciati all’aeroporto, mi precipitai verso lo stadio. Secondo quanto stabilito, i miei amici mi avrebbero aspettato alla fermata della metro per darmi il biglietto ed entrare tutti assieme.

Arrivai con un quarto d’ora di anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento. Non c’era nessuno, ma ovviamente non me ne preoccupai, mi misi seduta e attesi. Attesi. Attesi. Attesi.
Nel frattempo mi passarono davanti centinaia di energumeni tedeschi il cui aspetto variava dal “poco rassicurante”, passando per il genere “ho rubato la pensione alla mia povera nonna”, per finire con il “sono appena scappato dal braccio della morte”.
Io cercai di mantenere la calma, mi mimetizzai con la panchina e, pregando ogni dio conosciuto, feci voto di rinuncia ai piaceri della carne in cambio della mia salvezza.

Intanto, l’orario dell’appuntamento giunse e passò.
E finalmente qualche dubbio iniziò a cogliermi. Strisciando lungo le pareti raggiunsi la cartina della metro. E ciò che era stato solo un dubbio divenne una certezza.
C’erano due fermate dello stadio. Io, ovviamente, ero scesa a quella sbagliata.

Infilai la mano in borsa, tirai fuori il cellulare. E scoprii che era spento. Completamente scarico. I miei amichetti avevano cercato infruttuosamente di mettersi in contatto con me, insultandomi in vari dialetti, lingue ed inflessioni.
Fui costretta ad avventurarmi nuovamente sulla metro, ormai piena di simpatici hooligan e gioiosi naziskin. Agitai i miei magici ricci biondi, feci lo sguardo da cattiva (che mi riesce benissimo), e miracolosamente portai la mia pellaccia a casa, o meglio allo stadio.

Alla fermata giusta trovai i miei pazienti amici ad aspettarmi.  Molto arrabbiati. A poco valsero scuse e spiegazioni, del resto quando si ha appiccicata addosso l’infamia del ritardo cronico, non ci sono scuse che tengano.

Comunque, riuscimmo ad entrare allo stadio in orario e a vederci la partita.
Il match fu terribilmente noioso. Il risultato finale un deludente 0 a 0. Io, colta da un attacco di patriottismo ingiustificato, tifai persino un po’ per i nerazzurri. Ma solo un po’, non esageriamo.

Ma il ricordo migliore di tutta l’esperienza rimane l’ipercalorico panino con wurstel comprato durante l’intervallo.  Come fanno i panini “dallo Zozzonen” in Germania, non li fanno in nessun altro luogo.

3 commenti:

  1. Ok. Salvato tutti i capitoli mancanti, così domani allieto il viaggio in treno ^_^

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