venerdì 16 marzo 2012

8. Schlachtensee

Il terzo giorno di permanenza a Berlino mi recai allo studentato.
Schlachtensee, questo era il suo nome, era costituito da numerosi piccoli edifici, sparsi in quella che poteva definirsi una via di mezzo tra un boschetto ben tenuto ed un parco abbandonato. Vi erano una segreteria, un pub, una macchinetta che distribuiva preservativi, e gli alloggi per noi studenti. Il tutto localizzato in una zona residenziale della città, distante anni luce da qualsiasi forma di svago. La morte sociale.

L'iter da seguire per noi nuovi arrivati era il seguente: le segretarie ti facevano firmare il contratto d'affitto, ti assegnavano una stanza e ti dotavano di cartina. Detto così sembra semplice, peccato che le indicazioni per l'alloggio non fossero del tipo: casa 15, secondo piano, interno 3. Ma consistessero in un codice infinito di cifre, con il quale sarebbe stato più semplice aprire il caveau di una banca in Svizzera piuttosto che trovare la propria camera.

Nonostante il mio senso dell’orientamento sia paragonabile a quello di un novantenne rimbambito, riuscì comunque a trovare la mia palazzina: la 17, giusto per cominciare bene.
All'ingresso fui intercettata da un ragazzone keniano, alto due metri e largo quanto un armadio che, notando la mia aria smarrita da "pulcino allo svincolo di Roncobilaccio", si mise una mano sulla coscienza, oltre che il mio zaino sulle spalle, e mi accompagnò fino alla porta giusta.

L'arredamento di ogni stanza era costituito da una scrivania, un armadio, un letto ed una libreria: il tutto stipato in 3 metri quadri. La camera era molto anonima e spoglia, ma nel giro di poche settimane l’avrei trasformata nella mia accogliente cuccia. Prodigio reso possibile da una semplice tendina a fiori, un colorato copripiumone, bellissime cartoline pubblicitarie in omaggio ovunque, oggettistica varia proveniente dall’immancabile catena svedese di design low cost (sì, quella, proprio quella, quella con le libidinose polpette), e preziosi ninnoli scovati nei numerosi mercatini sparsi in giro per la città.

La prima delle tante persone incredibili che conobbi a Schlachtensee fu la mia vicina di stanza: Lola. Ci incrociammo sul ballatoio, entrambe appena arrivate e desiderose di fare amicizia, e ci sorridemmo.
“Hallo, ich bin Pancrazia aus Turin.”
“Hallo, ich bin Lola aus Madrid.”
Da quel momento sotto i miei piedi si aprì la voragine della barriera linguistica. Lei aveva un vocabolario di un milione di parole, sparate alla velocità di 300 lemmi al secondo, il tutto condito da un fortissimo accento spagnolo. Io parlavo un tedesco elementare e scarno.
Lei capiva perfettamente ciò che dicevo io.
Io non capivo una mazza di ciò che diceva lei.
Ma l’inesorabile Lola non si lasciò minimamente intimidire dal mio sguardo perso e si esibì in un monologo fitto ed incomprensibile, che a distanza di anni ricordo ancora con terrore. Ignoro totalmente cosa mi abbia detto, potrebbe avermi confessato un passato da narcotrafficante, avermi proposto una cosa a tre con il suo fidanzato, o semplicemente resami vittima della più riuscita supercazzola della storia. Non lo so e, a questo punto, non lo voglio sapere.

Dopo cinque interminabili minuti, per cercare di chetare la logorroica iberica, le proposi una visita degli spazi comuni del piano: la cucina, i bagni e le docce.
Se i servizi erano accettabili, la cucina era al di là di ogni immaginazione. Sembrava uscita da uno di quei film sui sopravvissuti ai disastri atomici. La sporcizia di anni regnava sovrana in ogni angolo, vi erano piatti luridi accatastati su ogni superficie utile, un dito di unto spalmato su tutte le pareti e pentolame vario, con annessi resti di cibo risalenti al paleozoico, impilato davanti alla finestra.

E’ proprio in questi frangenti che si nota la forza delle persone e lo spirito di adattamento che le anima. Lola corse a chiudersi nella propria stanzetta, dove probabilmente versò calde lacrime. Io, che ho sempre avuto lo stomaco d’amianto e non mi schifo di nulla, corsi al supermercato. Mi era venuto un certo languorino.

Tornata allo studentato incrociai Marco, un ragazzo di Bolzano, che mi chiese: "Hai visto Simone?"
"Chi?"
"Simone, quello di Genova, abita qua al terzo piano"
"No, non so chi sia, perché?"
"E' arrivato dall'Italia in macchina, ha portato tutto: stoviglie, parmigiano, caffè. Io cenerò con lui."

Lo so cosa state pensando: che tristezza, giovani italiani all'estero che si comportano come gli emigranti degli anni '60 e si mettono in gruppo a mangiare spaghetti.
E la globalizzazione? L'Europa unita?
Avete perfettamente ragione, ma: "Mi posso autoinvitare?"
"Certo, più siamo meglio è"

La mia prima cena allo studentato Schlachtensee di Berlino consistette in un piatto di spaghetti burro e parmigiano, in compagnia di Marco di Bolzano, Simone di Genova e Anna di Venezia.
La globalizzazione poteva attendere.

Continua...

2 commenti:

  1. Hahahahaha, la cena con compaesani è un classico! Almeno quanto gli spagnoli con un accento terrificante, non importa che lingua stiano parlando!!

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  2. Tipicissimo. "No guarda, adesso che mi trasferisco a Monaco, guarda, mi voglio proprio integrare eh. No ai contatti con gli italiani, no alle associazioni di immigrati, no alla comunella solo con gli espatriati eh. Sì perchè senò dimmi il senso di andare all'estero, scusa. Tanto vale starsene a casa propria eh.". "Eireen scusa, ma adesso che sei via da un po', come va? Hai fatto amicizia, ti sei tedeschizzaza come tanto volevi?". "Ho legato tantissimo, sai. " "Maddai. E con chi? Johannes? Sabine? Karl?". "Beh... Carmen, Joana e Paco.". "Ah ecco."

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